Palermo. Giugno. Ore 6,30. Caldo. Appuntamento. Artista. Fabrizio Ajello. Uno studio... no, una stanza.
Lo studio dove un pittore, oltre a dipingere, vive, è un luogo sacro e magico. È un tempio di memoria e alchimia. Il tempo lì passa diversamente rispetto a fuori. Dentro uno studio l'esistenza si coagula sulle pareti. Sul pavimento. Sul soffitto. Sulle porte. Sugli indumenti di chi vi entra. Si nasconde dentro gli occhi di chi vi spia. S'infiltra dovunque, trasforma e si trasforma. L'aria è densa perché compressa in una stanza sola, dove l'artista deve mangiare, dormire, dipingere, scrivere, amare. La notte potrebbe essere il giorno, il giorno potrebbe essere la notte. Gli anni hanno dato ad ogni cosa un ordine organico e disordinato. Tele su tele, tubetti spremuti, pestati, barattoli di caffè dove navigano pennelli di tutte le dimensioni che attendono, candele smangiate, bottiglie, alambicchi, forchette, piatti incrostati di cibo e vernice, coperte, matite spuntate, libri, cavalletti, pezze, stracci, quaderni, carte, cartacce. Un microcosmo agli occhi gonfi di un tardo risveglio, al freddo della luce invernale che rende preziosi i gesti, le attese, gli errori, i passi quotidiani di chi crea vivendo e vive creando. Lo sguardo fotografico insegue le mani, le torsioni, gli sforzi, le pieghe, i respiri sulla carta, contro la tela, senza fermarsi, senza comporre, ma lasciandosi andare. Werner Herzog affermava che usare un cavalletto rende un mezzo espressivo senza pietà e che rivela solo immagini fisse, immobili, morte. Ecco perché qui la macchina fotografica è usata a mano, in modo tale da respirare necessariamente con il respiro di chi guarda. L'occhio fotografico in queste immagini non testimonia più, adesso è diventato respiro.